17.6.08

Capitolo Nono (seconda parte),

Ora, lasciando un attimo i due disgraziati al loro infausto destino, nascosti in una buca dal fondo piscioso (sì, perché Cippa non disdegna l’apertura di tutte le vàlvole quand’è assai spaventato), ci occuperemo dello svolgersi della battaglia. Un po’ per stendere un velo pietoso sulle condizioni dei due Arditi, un po’ perché mentre sono aqquattati sul fondo della bvca non presentano nessun interesse allo svolgimento del racconto, datosi che aspettano altro che il finire dell’ecatombe per poter sinalmente uscire allo scoperto e riguadagnare una posizione sicura ed eretta.
Vi dirò allora che cotanta battaglia, che si consuma da ventitrè anni sui deserti di Silicone, è nata non da un piatto di lenticchie non pagato, come diceva Mantrugia nel capitolo sesto, cosa che sarebbe dipersé risibile dato che le lenticchie non hanno valore alcuno. Bensì dal mancato pagaggio di un piatto di joduri, di cui il maraviglioso ambasciatore di Gagaronia si abbuffava regolarmente ad ogni piè sospinto, nonostante gli joduri, specie quelli alla scorza di limone, gli facessero anche dimórto schifo. Ma si sa, ai potenti non si guarda in bocca.
Insomma, questa guerra andava avanti da ventitré anni, e i soldati iniziavano anche a esserne un po’ stanchi. Ma la fine non si vedeva. Quel giorno in cvi i nostri due Erroi fecero la comparsa su Sisifone era il giorno della battaglia di Brodino, così nominata perché consumata tutta nello spazio di tempo in cui il vecchio general Frùgati (e non Frugàti) diluviava col risucchio assassino il suo brodino di orca. Le palle fischiavano inferocite a bella posta nell’aria, e dalle postazioni del vecchio ma bolso capitan Pipetta si potevan scorgere le posizioni nemiche. I Gagaroni, forti della presenza della loro artiglieria, stavano avanzando sul fianco destro coperti dal lancio di palle smisurate. Il vecchio ma muto capitan Pipina si drizzò sugli spalti, col pettinfòri, come a sfidare la marmaglia negra che gli muoveva contro e tuonò: “A me voi me lo puppate!”, sfidando poi alla pugna il nemico con l’elegante gesto a due mani verso l’inguine che contraddistingue i nobili graduati. I suoi soldati, al vederlo, ebbero come un moto d’orgoglio, e subito volevano lanciarsi nella pugna. Ma il vecchio e asmatico capitan Pipone si riscosse e bloccò lo slancio dei suoi. Pur se fremeva in lui lo spirito del guerriero e anche una pignatta di cotenne in agrodolce che aveva spazzolato di nascosto nottetempo, pur se il suo disiio era quello di lanciarsi all’attacco del nemico insolente, sapeva che gettare i propri uomini sul campo sotto il tiro delle enormi palle del nemico sarebbe stato un mero suicidio. Tutta la sua trincea ribolliva di rabbia e sdegno a veder i Gagaroni padroni del campo, e il vecchio ma cerumoso capitan Pipato sparava dei colpi di rivoltella a casaccio sulla truppa per sfogarsi un po’ dalla stizza. “Basta” disse ad un certo punto “non ne posso più di vedere quei malnati Gagaroni padroni del campo e sentirli motteggiar con vili parole la mia discendenza materna. Devo attaccar briga o non so più chi sono. Ma prima di attaccare sul caNpo si deve distruggere quel nido d’artiglieria, che altrimenti ci triterebbe alla stregua d’un norcino”. Detto questo si voltò ad incrociare lo sguardo de’ suoi uomini per cercarvi un volontario. La truppa infame, però, aveva di colpo smarrito lo spirito guerriero. Finché si trattava di gettar male parole al di là del parapetto, come tutti i giorni, eran buoni tutti. Ma appena si doveva rischiar la vita per la Patria, chissà perché, fiorivano copiosi i gesti dell’ombrello e sovente il comandante Pietrone veniva motteggiato con versi quali “mandaci il budello di tu’ madre” e simili. Il capitan Gradasso scosse la testa a quel triste spettacolo, e sparò un altro paio di colpi di rivoltella sul cuoco Mailo, che rimestava le bucce di carruba nel pentolone d’ordinanza. D’un tratto ecco arrivare, lieto ed inconsapevole, un ragazzetto dalle retrovie. Era costui un portaordini giovane e vigliacco, nomato Micragna per la sua natura generosa, magro come un uscio e con due occhietti torvi e cattivi che nascondevano però un carattere infido e calcolatore. Veniva a portare un ordine del general Frùgati al capitano Manicone. Il capitano cieco prese il foglio e lo lesse con gran sollievo: il general Brodone aveva dato l’ordine d’attaccare, ed infine i suoi prieghi eran stati ascoltati! Mancava solo da risolvere il problema della potente artiglieria nemica che stava crivellando di colpi il terreno inerte già da venti minuti buoni e non accennava a smettere per nessuna ragione.
Il potente vocione del capitano allora tuonò: “Tu, mezzasega merdosa, dato che non vali metà della poca sbobba di cui ti nutri, andrai a stanar quel nido d’artiglieri che va bersagliando da lungi la mia brigata!” e dicendo così additava il portaordini Micragna fra i plausi della truppa che si vedeva così risparmiata ad un lavoro pericoloso (pericoloso una bella sega, si trattava in pratica di morte certa). Il vile Micragna, d’altro canto, non ne voleva sapere di questa storia. Ma invece di palesare civilmente il proprio contrappunto al suo ufficiale superiore, il discolo infame cacciò una scurreggia roboante e si involò a perdifiato verso le retrovie ritmando la fuga col gesto ripetuto dell’ombrello e seminando nella corsa a destra e manca i tubi portaordini. Lesta ecco allora la marmaglia agli ordini del capitan Gastrite rincorrerlo con buona lena: essi vedevano nel piccolo Micragna l’unica speranza di condurre un assalto vittorioso (o meglio: di stare col culo in ammollo nelle trincee mentre il portaordini veniva sventrato dal fuoco nemico). All’altezza della terza trincea l’ingloriosa ritirata del portaordini viene fatta bersaglio di grida d’arresta, all’altezza della quarta di lancio di escrementi e all’altezza della quinta ecco partire la gragnuola di fuoco dai moschetti sul nano vigliacco. Che da parte sua continuava la corsa verso il Comando Generale, mollando per la strada tutti gli ordini della bisaccia e allentando la tensione che gli rendeva paonazzo il viso con terribili scureggie del diciotto.
Va da sé che tutto questo scompiglio creò un qualche imbarazzo nelle file dell’esercito, ed i Gagarroni, visto che la brigata del capitan Caciolo ripiegava inspiegabilmente all’interno, co­me in preda ad un attacco d’isteria collettiva, iniziarono l’avanzata a conquistar le trincee abbandonate. Dall’alto del Comando Generale, posto sulla collina Burgassi, il generale Balte Frùgati stava guardando disgustato la scena, e andava mordendo il cannocchiale con veemenza. I suoi colonnelli avevano un bel daffare per tenerlo calmo ed evitare che, in preda alla rabbia, si cacasse di nuovo addosso come del resto faceva verso le sette di sera. “Ma che fa il capitan Barbino?” gridava il vecchio generale “Non s’avvede che il nemico avanza? Non capisce c’ha da tenere la posizione ben salda, o siam perduti?”. Intanto la corsa per acciuffare il monello maledetto aveva coinvolto anche altri due reparti di fanteria, una postazione d’artiglieria ed un carro di salmerie, gettando lo scompiglio su tutto il fronte. Il piccolo merdone sfuggiva come un’anguilla ai tentativi di chi cercava d’agguantarlo, ora per il braccio, ora per la borsa degli ordini, ora per il sàcco dei coglioni: macché, tutto inutile. Il maledetto Micragna sembrava aver il diavolo in corpo, tanto correva veloce: evidentemente per lui la paura d’andare da solo e disarmato alla caccia d’una spietata batteria di cannoni da centoventi era tale da giustificare una simile deplorevole condotta. Il vecchio e zotico capitan Crodino annaspava dietro al portaordini in fuga, sorretto dalla stizza, sparando rivoltellate che colpivano ora un ferito sulla barella (risolvendo il gravoso problema dell’operazione) ora la brocca d’acqua santa del prete Wilmo, ora ancora l’immagine di San Tortoro, patrono del reggimento “XV° Usurai”. Il casino era ormai completo. I reggimenti avevano iniziato a spararsi tra di loro, cogliendo l’occasione della fuga di Micragna per regolare antichi conti che comprendevano scommesse alle bocce mai pagate e sorelle trombate a spregio. Così, mentre i Gagaroni occupavano senza colpo ferire le posizioni prima occupate dalle varie brigate, ecco fiorire in men che non si dica un vergognoso ed accanito scontro tutticontrotutti, col XXV° reggimento Portabanane che bastonava il XVI° Girmi, il V° Rigurgitatori a sparare a bruciapelo alle spalle al proprio sergente Catrone, e via dicendo in un crescendo informe di sparatorie, colpi bassi, mòsse disoneste e ricatti. Nel mezzo della zuffa infame il piccolo Marmugio Micragna continuava la propria fuga eludendo gli agguati e le risse che scoppiavano ormai senza più motivo alcuno, sempre inseguito dal capitan Gròppone che nella battaglia vergognosa aveva perso la rivoltella, i gradi e la basetta destra. Il general Frùgati aveva ormai risolto di bestemmiare un rosario intero di santi e aveva – finalmente – rilasciato la ritenzione dello sgombraminestre nelle mutandone da battaglia. Giunto ormai al limite della vergogna e vista la battaglia persa, lanciò per ultima speranza un ordine disperato al solo reparto che era rimasto fuori dalla marmaglia furiosa: una batteria di mortai da 85 che si trovava al di là della collina: “Aprite il fuoco su quel pezzodimerda di portaordini! Abbattetemi subito quel piccolo vigliacco prima che ci porti allo scompiglio!”. Ma, séééé, ormai altro che scompiglio, la soldataglia era arrivata a tirarsi anche le mutande e gli ufficiali avevano perso i gradi e il ritegno, al punto tale che qualcuno fu visto anche farselo pestare nel cvlo sul retro della Santabarbara. Per fortuna della decenza la gragnuola di colpi di mortaio sparati sul piccolo portaordini compì il suo lavoro. Oltre a dilaniare la piccola carogna svbdola e porre fine al problema di agguantarlo (ora si trattava al limite di raccattarlo), le bombe assassine portarono ordine anche nella soldataglia inselvatichita, mietendo vittime a grappoloni e ripristinando finalmente una quiete di tomba sui sopravvissuti.
La battaglia finì così, fra le bestemmie implacabili del General Flambè che veniva portato via dai gendarmi dei Gagaroni che avevano conquistato il campo senza sparare un colpo. I pochi sopravvissuti alla rissa epocale e alla grandinata feroce di bombe vennero giustiziati sul posto dopo esser stati numerosamente e a lungo irrisi e lo stesso capitan Ruspone, beccato a pisciare sui resti del portaordini Micragna, fu passato per le armi dopo una sodomia coercitiva con la gran parte dei Gagaroni.
Così si concluse la giornata che vide protagonista l’ardimento del giovane Micragna, il senso del dovere del Capitan Pipetta ed il coraggio del General Frùgati. E che vide i nostri due eroi, che andremo a trovare l’indomani, sul teatro del macello, ma in un altro capitolo.
Oplà.

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